“Coprifuoco” è parola che mi rimanda a circa settant’anni fa. Me ne parlava la mamma con le sue storie di guerra, vissute tra i monti della Lunigiana. “Per evitare che attraverso le finestre uscisse fuori la luce delle candele"- diceva- "si coprivano i vetri all’interno con delle coperte.”
A me quella parola metteva paura, ma contribuiva probabilmente a calmare, almeno in parte, una irrequietezza già allora patrimonio del mio zaino di vita.
Il ricordo di quelle storie di coprifuoco è andato via via scomparendo nel corso degli anni della gioventù e della prima maturità. Mi ci ritrovai in mezzo, ad un coprifuoco, giusto in qualche occasione durante gli anni africani; una volta dopo un attentato contro Idi Amin Dada in Uganda, o all’inizio della guerra civile in Somalia negli ultimi anni 80. Erano comunque periodi brevi “protetti” dalla professione che esercitavo, in posti dove le leggi della convivenza civile alle quali siamo stati cresciuti non esistevano.
Certo non avrei mai pensato allora di ritrovarmi in mezzo ad un coprifuoco nella nostra società “avanzata”. E invece eccoci qui, tra blocchi colorati, e coprifuochi più o meno vincolanti.
Adesso non ho più paura del coprifuoco, ma e certo è che questa misura influisce in modo pesante sul nostro modello di vita.
Ora il coprifuoco non mi provoca più la paura di quando avevo quattro-cinque anni, ma si che mi da malessere il constatare che i miei movimenti di persona libera sono di fatto limitati.